Un eroe della legalità, un martire di Cristo
La solenne cerimonia domenica 9 maggio nella Cattedrale di Agrigento
(CM)
Rosario Angelo Livatino è Beato
Rosario Angelo Livatino era un giovane magistrato siciliano, pressoché sconosciuto, ma già assai scomodo per quella cosca mafiosa agrigentina chiamata “Stidda”, che si vedeva porre sotto sequestro i propri beni accumulati mediante il crimine. Doveva perciò morire e la sua condanna fu eseguita il 21 settembre 1990 dopo aver bloccato la sua auto ed un breve inseguimento in una scarpata.
Il “giudice ragazzino” (aveva appena 38 anni) che i mafiosi chiamavano con spregio “santocchio” non era certo un bigotto, ma un autentico interprete della fede che illuminava il suo operato di magistrato al servizio della giustizia. Era un uomo tutto d’un pezzo, impenetrabile alle logiche mafiose, incorruttibile, quindi estremamente scomodo in un ambiente dove la legalità è costantemente insidiata da chi esercita un potere criminale parallelo.
«Sarebbe sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l'ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall'ordine giudiziario». Sono le sue parole, pronunciate nel 1984 ad un convegno sul ruolo del giudice. La sua scelta non lasciava dubbi circa possibile collusioni tra politica e criminalità, ma lo candidava altrettanto chiaramente ad essere un agnello sacrificale. E ne era tanto consapevole da aver rifiutato la scorta che gli spettava, per non mettere a rischio con la sua anche la vita di altre persone innocenti.
In un successivo scritto del 1986 si comprende quanto la sua costante ricerca spirituale fosse un tutt’uno con la professione: «…scegliere è una delle cose più difficili che l'uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio». Rosario Angelo era solito siglare “STD, Sub Tutela Dei” i suoi appunti più importanti e proprio nel momento culmine del suo martirio si è affidato sicuro a Dio perdonando i suoi uccisori: “che cosa ti ho fatto?”, parole che suonano come “un invito sofferto a riflettere sulle proprie azioni, a ripensare la propria vita, cioè a convertirsi”, come ha detto il card. Semeraro.
La santità si cela spesso tra le persone apparentemente comuni, quando sono capaci di gesti coraggiosi e coerenti con uno stile di vita che cerca solo verità e giustizia. Come affermava Papa Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri è perché sono testimoni”. E non possiamo dimenticare il grido – l’anatema potente - che Giovanni Paolo II lanciava dalla Valle dei templi di Agrigento il 9 maggio 1983: «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!». Non a caso, quella data del 9 maggio – un punto di non ritorno della Chiesa nei confronti della mafia - è stata scelta per la beatificazione di Rosario Angelo Livatino.
A conclusione della cerimonia, dalla finestra del palazzo apostolico in Vaticano risuonavano le parole di grande ammirazione di Papa Francesco per Rosario Angelo: «… Il suo lavoro lo poneva sempre sotto la tutela di Dio, per questo è diventato testimone del Vangelo fino alla morte eroica. Il suo esempio sia per tutti, specialmente per i magistrati, stimolo ad essere leali difensori della legalità e della libertà. Un applauso al nuovo beato!».